L’articolo che segue è stato pubblicato sul numero di ottobre della rivista Controvento: https://www.amrcontrovento.it/bollettino-controvento/
Aggiungo un aggiornamento: l’articolo 31 del disegno di legge “Sicurezza”, approvato alla Camera e in coda al Senato prevede che: “Le pubbliche amministrazioni, le società a partecipazione pubblica o a controllo pubblico e i soggetti che erogano, in regime di autorizzazione, concessione o convenzione, servizi di pubblica utilità sono tenuti a prestare al DIS, ALL’AISE e ALL’AISI la collaborazione e l’assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico, necessarie per la tutela della sicurezza nazionale. Il DIS, L’AISE e L’AISI possono stipulare convenzioni con i predetti soggetti, nonché con le università e con gli enti di ricerca, per la definizione delle modalità della collaborazione e dell’assistenza suddette. Le convenzioni possono prevedere la comunicazione di informazioni ai predetti organismi anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza”.
MINERVA DUAL USE
La questione del crescente coinvolgimento in campo militare è stata sollevata in diversi atenei italiani, in particolare nel corso delle mobilitazioni contro i massacri israeliani in Palestina nella primavera del 2024. La parola d’ordine: “Fuori la guerra dalle università!” ha rappresentato una presa di coscienza del fatto che non ci si possa limitare a chiedere il boicottaggio degli accordi con alcuni atenei israeliani, perché ricerca e didattica hanno sempre più un’impronta anche militare.
Mentre una parte più moderata dei manifestanti ha motivato le proprie richieste di boicottaggio incentrandole sul rispetto dei diritti umani e invischiandosi in infinite discussioni su che cosa essi realmente siano e su come poter decidere chi li rispetta e chi no, un’altra ha cercato di entrare nel merito della ricerca scientifica odierna.

Non sono molti gli atenei che lavorano direttamente per le aziende produttrici di armi, anche perché ciò li inibirebbe dal partecipare ai bandi di alcune organizzazioni di beneficienza che pongono la condizione che i beneficiari non debbano lavorare per industrie belliche. Difficile che gli atenei lavorino direttamente per Beretta o Agusta, ma i progetti col Ministero della Difesa, con l’Esercito Italiano e con la NATO sono ben più frequenti.
La vera eccezione è rappresentata da Leonardo SpA, ex Finmeccanica, un’azienda con forte partecipazione statale (30%). Questa azienda, che deve l’83% del suo fatturato al settore cosiddetto “Difesa”, fornisce finanziamenti alla ricerca così ricchi e numerosi da fare dimenticare le organizzazioni di beneficienza. Leonardo SpA è immancabilmente presente in Israele, e meriterebbe di essere oggetto di una campagna ad hoc in quanto fulcro economico, ideologico e politico del rapporto sempre più stretto fra guerra e atenei1. Oltre a produrre armi, Leonardo svolge ricerche in settori tecnologici di avanguardia: robotica, intelligenza artificiale, sicurezza cibernetica tra gli altri e, attraverso la Fondazione Med-Or, presieduta dall’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, promuove attività culturali, di ricerca e formazione scientifica.
La foglia di fico che serve a mistificare la ricerca in ambito militare si chiama dual use: quando si vuole nascondere la realtà, che cosa suona meglio di una bella parola inglese? Una parte dell’attività di ricerca, anche quella finanziata con soldi pubblici (per esempio i bandi del Ministero degli Esteri), prevede ricadute sia in campo civile che militare, ma non si tratta certo di una novità. Come ben spiega il prof. Michele Lancione, ordinario al Politecnico di Torino, molti docenti sostengono di non realizzare studi in ambito militare perché si disinteressano dell’uso che può essere fatto in campo militare dei risultati da loro ottenuti2. La stessa Commissione per l’etica della ricerca e la bioetica del CNR rileva come spesso gli scienziati siano poco formati sulle implicazioni del dual use e poco attenti alle possibili ricadute delle loro ricerche. Naturalmente la preoccupazione, in questo caso, non è incentrata sull’utilizzo in campo militare da parte degli stati, ma sui rischi delle ricadute sulla salute pubblica o degli usi da parte di organizzazioni terroristiche.
Inoltre vi è l’aspetto non secondario della copertura ideologica: una sorta di university washing per la poco presentabile ricerca applicabile allo sterminio. Nessuno si aspetta che un ateneo si dedichi a sviluppare nuove generazioni di mine anti uomo o di gas nervini, ma se poi, grazie alle sue ricerche di un suo docente si può sterminare un intero villaggio indirizzandovi un drone di ultima generazione che lo ripulirà “chirurgicamente” da sospetti terroristi, ben pochi avranno da eccepire. La credibilità degli atenei da potere spendere in termini di immagine può valere tanto quanto i risultati delle ricerche.
La militarizzazione degli atenei rientra in un fenomeno più antico, che è l’aziendalizzazione degli atenei. La battaglia contro la cosiddetta sinergia tra pubblico e privato è stata combattuta e persa nel 1990 dal movimento della Pantera. La concezione di un’università pubblica mossa da logiche diverse e spesso opposte a quelle aziendali e militari è completamente tramontata, com’era inevitabile data la sconfitta di quel movimento e l’indirizzo complessivo degli apparati dello stato nell’era della cosiddetta globalizzazione. Lo stato borghese non mantiene le sue istituzioni per beneficienza, ma per contribuire alla valorizzazione del capitale e alla trasmissione dell’ideologia dominante. Il “libero confronto fra scuole di pensiero” si è quasi sempre tradotto in una guerra di cordate che combattono per mantenere o ampliare i propri spazi di potere. L’università baronale si spartiva fondi statali, l’università aziendalizzata cerca di attirare fondi anche dai privati. Il dibattito, il confronto, lo scontro, utili a legittimare le varie cordate, diventano spesso obsoleti: meglio non perdere tempo e cercare di raccattare finanziamenti vendendo o svendendo la merce sapere.
La valorizzazione delle conoscenze (dove per valorizzazione si intende l’accezione economica del termine), il trasferimento tecnologico, rappresentano l’orizzonte entro il quale si muovono gli atenei: perché mai la ricerca in campo militare dovrebbe restarne esclusa? Il fondamentale e annoso dibattito sulla non neutralità della scienza appare ormai superfluo3. L’aristocrazia del sapere è passata dal sostenere che la scienza è neutrale, opera per il bene dell’umanità e in perfetta indipendenza dai poteri economico e politico, a rivendicare la “sinergia” con questi poteri come un dato di fatto indispensabile e irrinunciabile.
Il versante ideologico della militarizzazione, il militarismo, è ancora distante dagli atenei. Le aziende hanno sempre covato l’aspettativa che l’università pubblica, che vedevano come un carrozzone mangia soldi, potesse trasformarsi nella loro scuola quadri: prima si ambiva a studenti specializzati e disciplinati, pronti ad accettare di lavorare tanto e in modo precario, poi si è capito che l’iper specializzazione diventa presto obsoleta e quindi è meglio puntare sulle capacità trasversali. Tutti devono introiettare per bene l’idea che alla base della nostra società c’è il merito e le aziende sono pronte a riconoscerlo e valorizzarlo. In questo schema, l’esercito può a pieno titolo presentarsi come una delle tante aziende del “sistema paese”. L’Università di Torino propone il corso: “Scienze strategiche e militari” all’interno della laurea magistrale in: “Scienze della difesa e della sicurezza”. La descrizione: “Il Corso di Laurea in Scienze Strategiche e della Sicurezza è rivolto a creare, in ambito non militare, delle professionalità dotate di una spiccata consapevolezza e conoscenza degli aspetti tecnici, giuridici, storico-politici, sociali, antropologici ed economici che afferiscono alla sfera della sicurezza nell’attuale scenario internazionale, e che siano in grado di integrarsi, ove necessario, con le attività svolte dai reparti militari.” Qualcosa di simile è offerta anche l’Università Kore di Enna, che ci spiega sulla sua pagina gli sbocchi professionali: “Nell’ambito pubblico, i settori privilegiati sono quelli delle forze armate, delle forze di polizia e di tutte le carriere attinenti alla difesa degli interessi nazionali ed europei, ivi compresi i profili professionali relativi alla carriera diplomatica…Nell’ambito privato, i laureati in Scienze strategiche e della sicurezza potranno lavorare, con ruoli di comando o coordinamento, nel campo della vigilanza privata, così come nell’ambito delle organizzazioni non governative dedite ad attività umanitarie. Settori occupazionali stimati in costante crescita poiché sempre di più la società globalizzata ha bisogno di figure professionali con competenze sulla sicurezza”. L’università ancillare rispetto alle aziende deve collocare quanti più studenti possibile nel mercato del lavoro, per il bene della Scienza e dei suddetti. Se le potenze imperialistiche scivolano sempre di più verso la guerra, sarà opportuno accrescere l’offerta di didattica e ricerca nel campo della “sicurezza”. D’altronde Minerva era la dea della guerra e dell’ingegno…
1 Leonardo vende naturalmente i suoi manufatti anche a Israele:
Qualcuno, come il Collettivo Scirocco di Palermo e alcuni centri sociali milanesi, ha già iniziato delle contestazioni mirate:
https://www.pressenza.com/it/2024/04/leonardo-spa-fuori-dalle-universita-italiane/; https://www.milanotoday.it/attualita/leonardo-guerra-universita.html
2 Il testo Università e militarizzazione è reperibile al seguente indirizzo:
3 Mi sembra utile, su questo punto, lasciare la parola a Ludovico Geymonat: “Se la scienza ci portasse a una conoscenza assoluta della realtà, noi potremmo sostenere che essa è in un certo senso neutrale, perché le verità che ci procura – in quanto assolute – non dipenderebbero in alcun modo dal soggetto che conosce, né dalle condizioni sociali in cui egli opera, né dalle categorie logiche o dagli strumenti osservativi usati per conoscere. Se, viceversa, nelle scienze (e conseguente- mente nella concezione generale del mondo che su di esse si regola e si misura) non fosse presente un secondo fattore, e cioè la realtà che esse ci fanno via via conoscere sia pure in modo relativo e non assoluto, le scienze e la filosofia risulterebbero delle costruzioni puramente soggettive: costruzioni senza dubbio non neutrali, perché dipendenti per intero dall’uomo che compie le ricerche scientifiche e dalle condizioni sociali in cui egli opera, ma in ultima istanza non neutrali solo in quanto arbitrarie. Solo la conoscenza dei due anzidetti fattori – l’uno soggettivo, l’altro oggettivo – ci fa comprendere che la scienza non è né neutrale né arbitraria. E solo l’esistenza di un incontestabile rapporto dialettico tra tali due fattori ci fa comprendere che la scienza non è suddivisibile in due momenti separati (l’uno non arbitrario e l’altro non neutrale) ma è, nella sua stessa globalità, non arbitraria e non neutrale, cioè possiede questi due caratteri intrinseci e ineliminabili”, Geymonat, L., Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 117-118.