La militarizzazione degli atenei

L’articolo che segue è stato pubblicato sul numero di ottobre della rivista Controvento: https://www.amrcontrovento.it/bollettino-controvento/

Aggiungo un aggiornamento: l’articolo 31 del disegno di legge “Sicurezza”, approvato alla Camera e in coda al Senato prevede che: “Le pubbliche amministrazioni, le società a partecipazione pubblica o a controllo pubblico e i soggetti che erogano, in regime di autorizzazione, concessione o convenzione, servizi di pubblica utilità sono tenuti a prestare al DIS, ALL’AISE e ALL’AISI la collaborazione e l’assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico, necessarie per la tutela della sicurezza nazionale. Il DIS, L’AISE e L’AISI possono stipulare convenzioni con i predetti soggetti, nonché con le università e con gli enti di ricerca, per la definizione delle modalità della collaborazione e dell’assistenza suddette. Le convenzioni possono prevedere la comunicazione di informazioni ai predetti organismi anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza”.

MINERVA DUAL USE

La questione del crescente coinvolgimento in campo militare è stata sollevata in diversi atenei italiani, in particolare nel corso delle mobilitazioni contro i massacri israeliani in Palestina nella primavera del 2024. La parola d’ordine: “Fuori la guerra dalle università!” ha rappresentato una presa di coscienza del fatto che non ci si possa limitare a chiedere il boicottaggio degli accordi con alcuni atenei israeliani, perché ricerca e didattica hanno sempre più un’impronta anche militare.

Mentre una parte più moderata dei manifestanti ha motivato le proprie richieste di boicottaggio incentrandole sul rispetto dei diritti umani e invischiandosi in infinite discussioni su che cosa essi realmente siano e su come poter decidere chi li rispetta e chi no, un’altra ha cercato di entrare nel merito della ricerca scientifica odierna.

Non sono molti gli atenei che lavorano direttamente per le aziende produttrici di armi, anche perché ciò li inibirebbe dal partecipare ai bandi di alcune organizzazioni di beneficienza che pongono la condizione che i beneficiari non debbano lavorare per industrie belliche. Difficile che gli atenei lavorino direttamente per Beretta o Agusta, ma i progetti col Ministero della Difesa, con l’Esercito Italiano e con la NATO sono ben più frequenti.

La vera eccezione è rappresentata da Leonardo SpA, ex Finmeccanica, un’azienda con forte partecipazione statale (30%). Questa azienda, che deve l’83% del suo fatturato al settore cosiddetto “Difesa”, fornisce finanziamenti alla ricerca così ricchi e numerosi da fare dimenticare le organizzazioni di beneficienza. Leonardo SpA è immancabilmente presente in Israele, e meriterebbe di essere oggetto di una campagna ad hoc in quanto fulcro economico, ideologico e politico del rapporto sempre più stretto fra guerra e atenei1. Oltre a produrre armi, Leonardo svolge ricerche in settori tecnologici di avanguardia: robotica, intelligenza artificiale, sicurezza cibernetica tra gli altri e, attraverso la Fondazione Med-Or, presieduta dall’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, promuove attività culturali, di ricerca e formazione scientifica.

La foglia di fico che serve a mistificare la ricerca in ambito militare si chiama dual use: quando si vuole nascondere la realtà, che cosa suona meglio di una bella parola inglese? Una parte dell’attività di ricerca, anche quella finanziata con soldi pubblici (per esempio i bandi del Ministero degli Esteri), prevede ricadute sia in campo civile che militare, ma non si tratta certo di una novità. Come ben spiega il prof. Michele Lancione, ordinario al Politecnico di Torino, molti docenti sostengono di non realizzare studi in ambito militare perché si disinteressano dell’uso che può essere fatto in campo militare dei risultati da loro ottenuti2. La stessa Commissione per l’etica della ricerca e la bioetica del CNR rileva come spesso gli scienziati siano poco formati sulle implicazioni del dual use e poco attenti alle possibili ricadute delle loro ricerche. Naturalmente la preoccupazione, in questo caso, non è incentrata sull’utilizzo in campo militare da parte degli stati, ma sui rischi delle ricadute sulla salute pubblica o degli usi da parte di organizzazioni terroristiche.

Inoltre vi è l’aspetto non secondario della copertura ideologica: una sorta di university washing per la poco presentabile ricerca applicabile allo sterminio. Nessuno si aspetta che un ateneo si dedichi a sviluppare nuove generazioni di mine anti uomo o di gas nervini, ma se poi, grazie alle sue ricerche di un suo docente si può sterminare un intero villaggio indirizzandovi un drone di ultima generazione che lo ripulirà “chirurgicamente” da sospetti terroristi, ben pochi avranno da eccepire. La credibilità degli atenei da potere spendere in termini di immagine può valere tanto quanto i risultati delle ricerche.

La militarizzazione degli atenei rientra in un fenomeno più antico, che è l’aziendalizzazione degli atenei. La battaglia contro la cosiddetta sinergia tra pubblico e privato è stata combattuta e persa nel 1990 dal movimento della Pantera. La concezione di un’università pubblica mossa da logiche diverse e spesso opposte a quelle aziendali e militari è completamente tramontata, com’era inevitabile data la sconfitta di quel movimento e l’indirizzo complessivo degli apparati dello stato nell’era della cosiddetta globalizzazione. Lo stato borghese non mantiene le sue istituzioni per beneficienza, ma per contribuire alla valorizzazione del capitale e alla trasmissione dell’ideologia dominante. Il “libero confronto fra scuole di pensiero” si è quasi sempre tradotto in una guerra di cordate che combattono per mantenere o ampliare i propri spazi di potere. L’università baronale si spartiva fondi statali, l’università aziendalizzata cerca di attirare fondi anche dai privati. Il dibattito, il confronto, lo scontro, utili a legittimare le varie cordate, diventano spesso obsoleti: meglio non perdere tempo e cercare di raccattare finanziamenti vendendo o svendendo la merce sapere.

La valorizzazione delle conoscenze (dove per valorizzazione si intende l’accezione economica del termine), il trasferimento tecnologico, rappresentano l’orizzonte entro il quale si muovono gli atenei: perché mai la ricerca in campo militare dovrebbe restarne esclusa? Il fondamentale e annoso dibattito sulla non neutralità della scienza appare ormai superfluo3. L’aristocrazia del sapere è passata dal sostenere che la scienza è neutrale, opera per il bene dell’umanità e in perfetta indipendenza dai poteri economico e politico, a rivendicare la “sinergia” con questi poteri come un dato di fatto indispensabile e irrinunciabile.

Il versante ideologico della militarizzazione, il militarismo, è ancora distante dagli atenei. Le aziende hanno sempre covato l’aspettativa che l’università pubblica, che vedevano come un carrozzone mangia soldi, potesse trasformarsi nella loro scuola quadri: prima si ambiva a studenti specializzati e disciplinati, pronti ad accettare di lavorare tanto e in modo precario, poi si è capito che l’iper specializzazione diventa presto obsoleta e quindi è meglio puntare sulle capacità trasversali. Tutti devono introiettare per bene l’idea che alla base della nostra società c’è il merito e le aziende sono pronte a riconoscerlo e valorizzarlo. In questo schema, l’esercito può a pieno titolo presentarsi come una delle tante aziende del “sistema paese”. L’Università di Torino propone il corso: “Scienze strategiche e militari” all’interno della laurea magistrale in: “Scienze della difesa e della sicurezza”. La descrizione: “Il Corso di Laurea in Scienze Strategiche e della Sicurezza è rivolto a creare, in ambito non militare, delle professionalità dotate di una spiccata consapevolezza e conoscenza degli aspetti tecnici, giuridici, storico-politici, sociali, antropologici ed economici che afferiscono alla sfera della sicurezza nell’attuale scenario internazionale, e che siano in grado di integrarsi, ove necessario, con le attività svolte dai reparti militari.” Qualcosa di simile è offerta anche l’Università Kore di Enna, che ci spiega sulla sua pagina gli sbocchi professionali: “Nell’ambito pubblico, i settori privilegiati sono quelli delle forze armate, delle forze di polizia e di tutte le carriere attinenti alla difesa degli interessi nazionali ed europei, ivi compresi i profili professionali relativi alla carriera diplomatica…Nell’ambito privato, i laureati in Scienze strategiche e della sicurezza potranno lavorare, con ruoli di comando o coordinamento, nel campo della vigilanza privata, così come nell’ambito delle organizzazioni non governative dedite ad attività umanitarie. Settori occupazionali stimati in costante crescita poiché sempre di più la società globalizzata ha bisogno di figure professionali con competenze sulla sicurezza”. L’università ancillare rispetto alle aziende deve collocare quanti più studenti possibile nel mercato del lavoro, per il bene della Scienza e dei suddetti. Se le potenze imperialistiche scivolano sempre di più verso la guerra, sarà opportuno accrescere l’offerta di didattica e ricerca nel campo della “sicurezza”. D’altronde Minerva era la dea della guerra e dell’ingegno…

1 Leonardo vende naturalmente i suoi manufatti anche a Israele:

https://pagineesteri.it/2024/08/26/mondo/dallitalia-a-israele-passando-per-gli-usa-le-armi-di-leonardo-consegnate-a-tel-aviv

Qualcuno, come il Collettivo Scirocco di Palermo e alcuni centri sociali milanesi, ha già iniziato delle contestazioni mirate:

https://www.pressenza.com/it/2024/04/leonardo-spa-fuori-dalle-universita-italiane/; https://www.milanotoday.it/attualita/leonardo-guerra-universita.html

2 Il testo Università e militarizzazione è reperibile al seguente indirizzo:

https://osservatorionomilscuola.com/wp-content/uploads/2023/10/universita-e-militarizzazione-lancione-1.pdf

3 Mi sembra utile, su questo punto, lasciare la parola a Ludovico Geymonat: “Se la scienza ci portasse a una conoscenza assoluta della realtà, noi potremmo sostenere che essa è in un certo senso neutrale, perché le verità che ci procura – in quanto assolute – non dipenderebbero in alcun modo dal soggetto che conosce, né dalle condizioni sociali in cui egli opera, né dalle categorie logiche o dagli strumenti osservativi usati per conoscere. Se, viceversa, nelle scienze (e conseguente- mente nella concezione generale del mondo che su di esse si regola e si misura) non fosse presente un secondo fattore, e cioè la realtà che esse ci fanno via via conoscere sia pure in modo relativo e non assoluto, le scienze e la filosofia risulterebbero delle costruzioni puramente soggettive: costruzioni senza dubbio non neutrali, perché dipendenti per intero dall’uomo che compie le ricerche scientifiche e dalle condizioni sociali in cui egli opera, ma in ultima istanza non neutrali solo in quanto arbitrarie. Solo la conoscenza dei due anzidetti fattori – l’uno soggettivo, l’altro oggettivo – ci fa comprendere che la scienza non è né neutrale né arbitraria. E solo l’esistenza di un incontestabile rapporto dialettico tra tali due fattori ci fa comprendere che la scienza non è suddivisibile in due momenti separati (l’uno non arbitrario e l’altro non neutrale) ma è, nella sua stessa globalità, non arbitraria e non neutrale, cioè possiede questi due caratteri intrinseci e ineliminabili”, Geymonat, L., Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 117-118.

È disponibile l’audio della presentazione de “La Torre Azzurra” in Cox18

Giovedì 7 novembre dell’anno scorso ho avuto il piacere di presentare il mio romanzo La torre azzurra nello storico spazio sociale Cox18, insieme ad Alberto Stracuzzi e Andrea Monti. È stata un’occasione preziosa per approfondire alcuni dei temi centrali del libro, a partire da spunti e citazioni che Alberto ha selezionato per l’occasione.

Per chi non avesse potuto partecipare, annuncio con piacere che l’audio integrale della presentazione è ora disponibile. Ascoltatelo, per rivivere così il dibattito e le riflessioni emerse durante la serata.

Grazie a tutte e tutti coloro che hanno partecipato e contribuito alla discussione.

Presentazione alla Libreria dell’arco di Reggio Emilia

Mercoledì 20 novembre 2024 abbiamo presentato la collana Il cavallo verde alla Libreria dell’arco di Reggio Emilia. La libreria, oggi della Coop, è un luogo storico di Reggio Emilia, un palazzo molto bello che consiglio di visitare a chi si trovasse a passare da quella città.

Al momento siamo in tre ad avere pubblicato in questa nuova collana delle Edizioni San Lorenzo: Andrea Monti, che è anche il curatore ed editor, Luca Manini ed io.

È sempre molto interessante per un autore potere presentare il proprio lavoro davanti a un pubblico attento e molto differenziato per età, come quello di mercoledì. Ho provato a osservare le reazioni a quel che dicevamo negli occhi e sui visi dei diversi alunni dei colleghi autori (che sono anche professori di liceo), dei coetanei e delle persone più anziane.

Andrea e Luca hanno letto alcuni brani dei loro romanzi, io ho preferito riassumere la trama e soffermarmi su alcune tematiche ricorrenti nel romanzo e anticipare qualche spunto sul prossimo, intitolato MISS20, che uscirà fra qualche settimana.

Habuisti corpus

Alla ricorrente domanda sul perché ho ambientato i miei romanzi in un futuro distopico, solitamente rispondo che è il presente a essere distopico. Il presente ringrazia e si incarica volentieri di darmi ragione.

Uno dei più famosi e consolidati capisaldi della nostra cosiddetta civiltà giuridica, l’habeas corpus, è sempre più frequentemente calpestato nell’indifferenza generale.

Il caso più recente ed eclatante è quello del calciatore belga Stephane Omeonga, fatto scendere da un aereo e, a detta sua, malmenato. Il motivo addotto dalla Polaria (della quale ho appena scoperto l’esistenza: difficile essere aggiornati su tutte le polizie esistenti) è che fosse su una black list dello stato di Israele. Fate attenzione quando siete in aereo: se lo stato di Israele vi ha messi su una black list (ovviamente senza comunicarvelo), magari perché avete criticato in pubblico la sua politica in presenza di testimoni del suddetto stato, potreste essere fatti scendere e trattenuti per controlli. Solitamente l’essere malmenati è un premium riservato a chi non ha la pelle bianca. Ricordiamo il coro indignato, dalla Presidenza della Repubblica in giù, quando un rapporto dell’Ecri, organo antirazzismo e intolleranza del Consiglio d’Europa, denunciava la profilazione razziale messa in atto dalla polizia italiana.

Se il caso precedente rappresenta un episodio inquietante di violazione dell’habeas corpus (nessuno ha comunicato a Omeonga il motivo del provvedimento adottato contro di lui), una violazione sistematica si ha con le cosiddette zone rosse nelle metropoli italiane. Nulla di nuovo, per carità, gli innumerevoli decreti sicurezza avevano già ampiamente fatto carta straccia dell’habeas corpus, ma ora si fa un passetto ulteriore. Una persona con precedenti penali (magari una manifestazione non autorizzata, un blocco stradale, ecc.) può essere bandita da una zona della metropoli solo perché a insindacabile giudizio delle forze di polizia ha assunto dei comportamenti molesti (magari una manifestazione non autorizzata o una semplice protesta verso l’atteggiamento di qualcun altro, per esempio il maltrattamento di un cittadino con la pelle scura…). Alla seconda volta che ciò accade scatta il Daspo, che comporta un’interdizione dalla zona per 5 anni. Non è necessaria alcuna prova, e pertanto non è possibile difendersi in giudizio.

Non si è vista alcuna ondata di indignazione da parte dei cittadini democratici, progressisti, garantisti, liberali e libertari, nonché di sinistra. In fondo questi provvedimenti sono giustificati con la necessità di intervenire contro giovani violenti che infestano le nostre metropoli molestando, stuprando, spacciando, scippando. Nessuno vuole sentirsi accusare di difendere chi commette reati tanto odiosi, con buona pace per l’habeas corpus.

Affinità e differenze tra Luigi Mangione e il protagonista del romanzo Sugar Mountain

Avviso: raccomando a chi abbia intenzione di leggere il mio romanzo Sugar mountain, cosa che vivamente consiglio, di non leggere questo post.

Sugar Mountain

Il gesto compiuto da Luigi Mangione, come ormai anche i muri sanno, l’uccisione del CEO di United Healthcare Brian Thompson, è sicuramente paragonabile a quello di Raffaele, protagonista del mio romanzo Sugar mountain.

La somiglianza nelle modalità (uccisione a sangue freddo con una pistola) e nelle intenzioni (liberarci da un responsabile di una delle aziende più odiate) mi ha, in effetti, fatto sobbalzare. In fondo un personaggio è una creatura dell’autore, che a buon diritto può restare impressionato quando gli sembra che prenda vita.

Oltre alle similitudini fra i due vi sono due differenze. Raffaele uccide nel mezzo di una guerra il proprietario di una delle principali multinazionali produttrici di armi, differenza solo formale, e lo fa come emissario di un’organizzazione che l’ha addestrato per mesi a quello scopo, differenza sostanziale.

Per Raffaele, dato il contesto, non ci sarà un’ondata di entusiasmo mediatico, ma la domanda che si pone è la stessa: è morale uccidere un uomo responsabili di tante ingiustizie e lutti? Il mio romanzo fa il suo mestiere: solleva la questione e lascia la risposta al lettore. Mi sono limitato a fornire un paio di spunti. Da un lato le resistenze morali e politiche del candidato killer, influenzato da un argomento molto presente a sinistra e che si può riassumere così: l’assassino di un boia si trasforma anch’esso in un boia. Dall’altro le parole del Trostky di La loro morale e la nostra, utilizzate dal suo principale “addestratore”, che ritengono morale tutto ciò che ci avvicina alla rivoluzione, alla liberazione dell’umanità per la quale lottiamo.

Il gesto individuale di Mangione non ci avvicina – né ci allontana – da alcuna liberazione e tuttavia ha generato un’ondata di simpatia alla quale è difficile sottrarsi.

Tutto lo stordimento di massa, che in questi anni ha reso impossibile distinguere la destra dalla sinistra, che fa inciampare sempre nelle stesse pietre e sbattere continuamente la capoccia a chi solo prova ad alzarla, non è riuscito a cancellare un elementare senso di giustizia. Quello di chi è cresciuto leggendo Tex Willer e V per vendetta, ascoltando “La locomotiva”, o equivalenti più recenti. Quest’ultimo riferimento mi porta all’ultima considerazione, dato che gli eroi sono tutti giovani e belli.

I giornali e i tg hanno cercato di non dare molto risalto all’episodio, ma la crescita dell’ondata di simpatia dal basso ha spinto vari commentatori a dire la loro, assolvendo al proprio compito di Mandarini del potere costituito.

Spiccano in particolare due argomentazioni. Vediamo la prima, segnalatami da un amico: si parteggia per Luigi Mangione perché più “instagrammabile” (argh!) della sua vittima. Chi usa questo argomento, a mio parere, scambia i propri desideri con la realtà. Da decenni fanno di tutto per propinarci un mondo costruito sull’esteriorità, sull’immagine e, d’altro lato, per farci sembrare naturali le più odiose disuguaglianze e ingiustizie: non stupisce che mostrino di crederci. La popolazione mondiale opportunamente rimbecillita sarebbe sempre portata a parteggiare per un personaggio giovane e bello, anche a prescindere che si tratti di un assassino.

Il secondo argomento, avallato anche da organi di riferimento della cosiddetta sinistra, è che il Luigi Mangione sarebbe troppo ricco e poco politicizzato per diventare un eroe dell’anticapitalismo (La confusa romanticizzazione di Luigi Mangione, Il Post, 12/12/2024). Cascano le braccia davanti a tanta pochezza. Evidentemente la sinistra Ztl inorridisce davanti a un suo potenziale figlio che, abbandonate le tematiche alla moda, spara tre pallottole a un CEO, accusandolo di una colpa così plebea, come avere fatto crepare, aggravare o andare sul lastrico una grande quantità di poveracci, ai quali sono stati sistematicamente negati i rimborsi.

Spesso i dirigenti rivoluzionari provenivano da famiglie abbienti, o comunque non povere, inoltre Luigi Mangione quando è stato arrestato aveva con sé un documento politico. Inoltre le tre parole scritte sulle pallottole con un indelebile rappresentano un’evidente citazione di un libro: Jay M. Feinman: Delay, Deny, Defend: Why Insurance Companies Don’t Pay Claim and What You Can Do About, 2010.

Beato il popolo che non ha bisogno di eroi: non mi entusiasmo per un potenziale eroe dell’anticapitalismo, né per il dibattito che ne è seguito, ma constato che i CEO di simili aziende dormiranno sonni molto meno tranquilli.

Il che darà nuovo impulso al tema della secessione dei ricchi, che, detto per inciso, è uno dei temi del mio romanzo che dovrebbe essere in uscita a breve.

Presentazione in Cox18

Giovedì 7 Novembre ho presentato “La torre azzurra” nel centro sociale Cox18 insieme ad Alberto Stracuzzi e Andrea Monti.

La discussione si è sviluppata a partire da alcune citazioni trovate da Alberto. Anzitutto un articolo tratto da Le monde diplomatique di ottobre 2024, intitolato: Dov’è finito l’inconscio?. La tesi, in estrema sintesi, è che l’inconscio, che all’inizio del Novecento venne considerato come una potenza indomita, col suo potenziale destabilizzante, ma anche creativo, è oggi “addomesticato” da pacchetti con percorsi di benessere mentale, spesso forniti dalle aziende. Il tema si intreccia in modo stimolante con la trama del mio romanzo, nel quale una macchina per registrare i sogni attinge proprio dall’inconscio delle immagini come nuova linfa vitale per i film e le serie.

La seconda citazione era tratta dal romanzo I sicari di Trastevere, di Roberto Mazzucco. La tesi è che anche i giornalisti più coraggiosi finiscono per rientrare in un sistema funzionale al potere, che ha bisogno di disporre di un controcanto per legittimarsi. È quanto avviene in una delle due storie raccontate ne La torre azzurra, dove un giornalista che ha fatto carriera grazie a inchieste coraggiose è oggi in vista di un incarico alla direzione di un’importante testata, e decide di utilizzare quello strumento per farsi pubblicità e compiere l’ultimo passo.

L’ultima citazione, da Il lavoro culturale di Luciano Bianciardi, sosteneva che mentre prima della stampa i lettori andavano alla ricerca dei libri, ora i libri vadano alla ricerca dei lettori. Questa tendenza, come del resto tante altre, sembra essere giunta al suo estremo, con pochi libri campioni di vendite che fanno il grosso del fatturato di poche grosse case editrici e altri che cercano disperatamente di farsi conoscere, e pure leggere, in un paese con pochissimi lettori…

Andrea Monti ha presentato la collana Il cavallo verde, nella quale è stato pubblicato il mio romanzo. Il nome richiama la rivista fondata da Neruda nel suo soggiorno in Spagna e quegli anni di lotte politiche e di divisioni non lontane da quelle odierne. Periodo almeno culturalmente fecondo, allora…

Varie domande dal pubblico hanno permesso di approfondire la discussione, e a me di chiarire meglio alcuni aspetti. In particolare che l’idea da cui nasce il libro è che la perdita del senso della realtà e della memoria anche del presente siano tendenze ampiamente consolidate nel mondo d’oggi. La macchina che registra i sogni e le conseguenze che si manifestano senza essere percepite, almeno inizialmente, rappresentano una metafora per parlare del presente, uno stimolo per indagarlo con gli strumenti della letteratura.

A scanso di equivoci il romanzo è stato scritto durante il lockdown, cioè ben prima che uscisse Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, che utilizza anch’esso il circo come metafora…ma si tratta, per l’appunto, di un altro circo e un’altra metafora.

La biblioteca di Baggio

Mercoledì 9 ottobre alle 18 ho presentato La torre azzurra alla Biblioteca di Baggio, dialogando con Enrico Lenzi, giornalista di Avvenire e amico di lunga data.

Vivo a Baggio da sempre e la biblioteca è un luogo importantissimo per il quartiere, che ho frequentato fin da bambino. I lettori del romanzo sanno che essa rientra, anche se molto lateralmente, nella vicenda narrata.

La discussione che si è sviluppata, anche grazie a interventi dei presenti, è stata incentrata soprattutto sulla perdita della memoria storica e sul rapporto fra le generazioni.

Resistenza e cambiamento

Viviamo nel capitalismo. Il suo potere sembra inevitabile; come il diritto divino dei re. […] Il potere può essere contrastato e cambiato dagli esseri umani; resistenza e cambiamento spesso iniziano nell’arte.


Ursula K. Le Guin

Prendo spunto da questa citazione, utilizzata sul proprio sito dalla redazione di “Un’ambigua Utopia. Rivista di critica Marx/z/iana”.

Sempre più spesso ci viene da dubitare del contenuto di questa frase. Della seconda parte intendo, perché che viviamo nel capitalismo e che ai più appaia come inevitabile non credo siano assunti discutibili.

Resistenza all’ideologia capitalistica, individuazione e messa in discussione dei suoi capisaldi, questo è in sintesi il mio programma letterario.

Cerco di smascherare il falso mito della neutralità della scienza e della tecnologia, mettendo al centro di un romanzo una macchina che registra i sogni per metterli a profitto, oppure immaginando un distanziamento sociale radicale reso possibile da una tecnologia che simula perfettamente la realtà. Questa tecnologia risulterà essere funzionale alla secessione di un’esigua minoranza di plutocrati che si sono impossessati di gran parte del pianeta.

Metto alla berlina l’ideologia progressista falsamente alternativa, in realtà pienamente integrata nelle attuali dinamiche dello sfruttamento, tanto da abdicare completamente qualsiasi sua “alternatività” davanti a una contraddizione della portata di una guerra.

Faccio muovere i personaggi di un romanzo nell’inconsapevolezza della perdita di memoria, fino al paradosso di non ricordare più ciò che è accaduto la settimana prima, per mostrare l’appiattimento sempre più totale e acritico su un presente fatto di consumo effimero.

Scelgo per protagonisti di un romanzo due appartenenti alle generazioni anagraficamente più lontane, per rendere evidente quanto siano fittizie e inconsistenti le divisioni identitarie basate sull’età (il genere, la religione, il colore della pelle, ecc.) e quanto invece abbiano da condividere coloro i quali subiscono questo mondo e desiderano, magari ancora inconsapevolmente, rivoluzionarlo.

Costruisco un lemmario di parole alla moda (empowerment, stakeholder, ranking, smart, suggestione…) per inventarmi dei racconti che ne evidenzino, spesso attraverso l’ironia, il contenuto ideologico.

Nelle mie presentazioni cerco di coinvolgere il pubblico nella discussione di questi temi.

Presentazione a Les Mots, maggio 2024

Giovedì 16 maggio 2024 ho presentato la Torre Azzurra alla Libreria Les Mots.

L’ennesimo acquazzone di una primavera tra le più piovose che ricordi ha scoraggiato solo una piccola parte del pubblico. La sala era piena e l’ambiente, come sempre, è stato piacevole.

Mi presentava Ivan Vaghi, mio ex compagno di classe del liceo che, forse grazie a tutti questi anni di conoscenza, è riuscito ad azzeccare tutte le domande a cui avrei voluto rispondere, senza che ci fossimo messi d’accordo (ma questo lo crederanno in pochi).

Ringrazio le compagne e i compagni della Libreria, che mi avevano già ospitato per la presentazione di Sugar Mountain.

Pagine in rivolta

Sabato 8 e Domenica 9 giugno, presso il Centro Sociale Occupato Autogestito COX 18, si è tenuta la prima edizione del Piccolo Salone del Libro Politico. Si è trattato di un primo tentativo di riunire le Case Editrici che, nonostante le mille difficoltà di questi ultimi anni, hanno continuato a proporre libri politici “impegnati, militanti e capaci”.

La due giorni è stata organizzata da Cox 18, dalla Libreria Calusca e dall’Archivio Primo Moroni, in collaborazione con la rivista Millepiani e l’Association Culturelle Eterotopia France.

Nel salone al primo piano della Libreria Calusca, dove ha sede l’Archivio Primo Moroni, è ospitata una mostra di libri, giornali e riviste di movimenti e organizzazioni rivoluzionarie a cura della libreria stessa e delle edizioni Colibrì.

Sabato pomeriggio si è svolto il dibattito: “Liberare saperi nelle società di controllo”, con interventi di Ubaldo Fadini, Andrea Fumagalli, Michele Lancione, Cristina Morini, Lucia Tozzi e Tiziana Villani.

Domenica pomeriggio invece c’è stato lo Slam Poetry: poesie lette, recitate e votate.