In un post di oltre un anno fa ironizzavo su un presunto ritorno al verismo: copertine, fascette, pubblicità, valorizzano sempre più spesso il fatto che un’opera si basi su fatti realmente accaduti o su esperienze autobiografiche. Del resto, dopo decenni di fuga dalla realtà a opera del postmodernismo, viviamo in un’epoca di rivalutazione del realismo, e lungi da me lamentarmene. Il ritorno alla realtà avviene, com’è del tutto logico, con forme diverse che in passato, per esempio: “Commistione fra genere romanzesco, scrittura saggistica o documentaria, narrazione autobiografica, reportage giornalistico… una riabilitazione dell’autore… il soggetto scrivente diventa nuovamente importante… garante e responsabile, a livello etico, di quella realtà che racconta” (C. Rivoletti in “Narrativa – Nuova serie”, 38-2016).
Al di sotto della superficie dell’etichetta pubblicitaria che serve a vendere la merce, ci sarebbe un bisogno di sfuggire alla continua manipolazione della realtà operata dai mass media e dai social. Discutere sul nuovo realismo senza considerare le dinamiche dell’industria culturale rischia, però, di proiettarci in una sterile disquisizione idealistica, dove le tendenze sono il prodotto di elaborazioni intellettuali, o al limite il riflesso di tendenze sociali o massmediatiche.
L’esigenza dell’industria dell’intrattenimento (editoriale, cinematografica e televisiva) è di produrre in continuazione “storie vere” perché, per vari motivi, si vendono maggiormente, ma accade inevitabilmente che sia: “La stessa fame di storie vere del pubblico a produrre storie false” (R. Donnarumma in “Allegorie”, 57-2008). Anche il successo dei biopic rientra in questa esigenza di storie certificate come “vere”, anche se grondanti di scelte arbitrarie. Quanto maggiore è la falsificazione della realtà che subiamo quotidianamente a opera della cosiddetta informazione e dei social, tanto maggiore è la tendenza a identificare il vero con l’autentico.
Se questa è, in estrema sintesi, la tendenza, le domande che mi pongo sono: un realismo ampiamente filtrato soggettivamente rappresenta uno strumento utile per esercitare le armi della critica su una realtà che appare ai più come irrimediabilmente complessa e indecifrabile? O per suscitare almeno un interesse nell’esercizio della critica quando domina la stessa sfiducia nell’inutilità di intraprendere questo sforzo intellettuale?
Senza volere dare giudizi liquidatori, tantomeno su una costruzione arbitraria quale quella di un “genere” letterario, vedo, però, il rischio che il “filtro soggettivo” finisca per identificarsi col narcisismo dilagante e il “realismo” rischi di diventare solo un pretesto per parlare di sé. “Nei romanzi di oggi, l’emergenza dell’io-narratore è infatti, per certi versi, il risarcimento che l’individuo trova alla propria irrilevanza sociale” (ibidem). Questo spiega, peraltro, anche il proliferare della produzione romanzesca in un paese in cui pochissimi leggono, o dei verbosi soliloqui che nessuno ascolta.
La mia prospettiva letteraria è differente. Trovo molto più interessante presentare una realtà trasfigurata in uno o in pochi suoi elementi che, tuttavia, determinano dei cambiamenti sostanziali nella società e nella cultura. L’attuale tassonomia di generi letterari costringe questi romanzi nel genere distopico, perché il mondo che vi viene descritto rappresenta un’involuzione ulteriore di quello attuale, che però rimane perfettamente riconoscibile. In Sugar mountain l’elemento centrale è lo scoppio di un conflitto generalizzato (è stato scritto fra il 2015 e il 2018), ne La torre azzurra sono due: una macchina che registra i sogni e li traduce in immagini e una droga che aumenta il senso di realtà, ne Il grande ri-sot la riorganizzazione della vita secondo i dettami del distanziamento sociale. La realtà non viene descritta, o fatta riemergere mediante ricostruzioni storiografiche o giornalistiche, e tantomeno filtrata attraverso le opinioni dell’io del narratore. È a partire da una realtà trasfigurata che si può operare un confronto continuo con quella che viviamo, la costruzione fantastica ha un punto fermo nell’individuazione di alcune caratteristiche fondamentali nella realtà odierna. Per esempio ne La torre azzurra è la macchina che registra i sogni a produrre la perdita di senso della realtà e di memoria storica, e cioè a fungere da metafora di una delle caratteristiche principali della nostra società attuale. Ne Il grande ri-sot le persone non sono distanziate solo psicologicamente, come avviene oggi in ogni ambiente popolato da umani che ignorano chi sta a pochi metri e si relazionano con esseri distanti vari chilometri, ma anche spazialmente perché relegate in casa.
L’esigenza è quella di andare oltre la descrizione, di individuare delle chiavi interpretative. Non si vuole negare l’importanza di descrivere dei mondi che sono spesso irrimediabilmente lontani da noi (alcuni lavori, l’esperienza migratoria, la guerra, ecc.), ma di stimolare la riflessione sulle dinamiche possibili e sulle loro implicazioni, nella convinzione che solo passando dalla distopia si possa iniziare a riprendere una passione per l’utopia.